La questione metodologica
L’interesse che l’Istituto nutre per le questioni di carattere metodologico è dovuto a diverse ragioni: da un lato l’Istituto «estrae metodologia» da capolavori «artistici», e lo fa con metodo «scientifico»; da un altro lato l’Istituto «insegna metodologia» facendone l’oggetto principale di una didattica basata sull’acquisizione di «competenze» oltre che di «conoscenze»; una didattica che, dallo studio di oggetti «particolari» e concreti consente di ricavare principi «generali» di narrazione e composizione degli oggetti stessi.
All’interno di una «nuova didattica interdisciplinare delle arti narrative» l’istituto pone al centro il problema metodologico. Da troppo tempo la scuola è malata di «contenutismo ideologico»; di conseguenza considera l’apprendimento un problema che concerne solo «quali contenuti trasmettere» e «come farlo nel modo più rapido e indolore possibile». La «metodologia» nella scuola sembra inoltre riguardare soltanto i docenti, il modo in cui essi riescono più o meno efficacemente a «inculcare nozioni e verificare se sono state apprese». La scuola non sembra mai riguardare come si fa ricerca, come si scrive, come si compone, come si narra, come si scopre e come si inventa. Queste cose sono lasciate alla libera e spontanea creatività degli allievi, e perciò ai peggiori automatismi.
L’approccio ai testi che costituiscono il nostro bagaglio culturale, il nostro patrimonio di conoscenze, la nostra cultura, continua ad essere solo di tipo storico, sociologico e psicologico; così vengono incentivate l’erudizione, l’opinionismo e la dietrologia. Il confronto tra i testi non avviene che per questioni superficiali, tecniche, sociologiche, storiche. L’idea dominante è che la cultura si studia solo:
– con la storia che mira a contestualizzare i testi e a interpretarli sempre (anche quando sono capolavori artistici universali) come fenomeni rappresentativi unicamente del proprio tempo;
– con la sociologia che tenta di capire come mai un testo è stato accolto, apprezzato o censurato dal pubblico e dalla critica;
– con la psicologia che crede di poter indagare le turbe psichiche che agitano l’animo degli autori e di spiegare con esse la complessità dei testi.
Il risultato è che la cultura è trattata come un complesso di dati interpretati secondo luoghi comuni e suddivisi per settori ben distinti tra loro, che possono interagire solo attraverso un generico tema comune su cui far convergere «interdisciplinarmente» i diversi contributi critici (ad esempio: la «luna» dal punto di vista letterario tema prediletto di tanti poeti, la luna dal punto di vista storico oggetto delle conquiste spaziali e della competizione USA/URSS, la luna oggetto di studio geografico e astrofisico e magari anche chimico considerando la sua materia).
Inoltre i «temi» che vengono identificati per pretestuose attività interdisciplinari non aiutano ad entrare nel merito della costruzione dei testi, ma anzi li omologano per categorie superficiali e stereotipate come i «generi», con il risultato che un capolavoro artistico è equiparato a un prodotto della cultura di massa televisiva purché parli di mafia, di terrorismo, di bullismo, di amore adolescenziale, di malati terminali, di migranti, di femminismo etc. I testi vengono «usati» e non studiati; sono considerati solo come «pretesti» per sostenere finti dibattiti precostituiti e vere lezioni ideologiche, a tesi, che l’allievo deve imparare a recitare quando occorre, per farsi riconoscere come un obbediente campione del senso comune. Il menu del palinsesto culturale scolastico (proprio come quello televisivo) offre non solo l’esplicita «lezione ideologica» di presunto e indiscutibile impegno civile, sempre utili nella vita quando si tratta di sostenere un discorso stupido; offre anche la «divulgazione», che promette «l’illusione della conoscenza» senza sforzo, piuttosto che l’insostenibile «consapevolezza della propria ignoranza» e la necessaria fatica per apprendere e crescere. E infine, come dessert, il menu offre la «dietrologia interpretativa», soluzione apparentemente più sofisticata perché consente a qualunque «creativo» una via d’uscita per camuffare le proprie psicosi, la propria ignoranza e la propria superficialità, autorizzandolo a «girare intorno» al testo, a ricercare «dietro» – piuttosto che dentro – significati ovviamente «segreti», che puntualmente emergono, come in una seduta spiritica, quali proiezioni delle sue ossessioni, rendendo così i testi utili solo a scatenare le associazioni psicologiche di interesse personale e a scambiarle per «interpretazioni originali» dei testi stessi. Dovrebbe apparire evidente che le associazioni psicologiche, arbitrarie, soggettive, che il soggetto produce osservando un testo e trattandolo come una «macchia di Rorschach», non possono aiutare a comprendere il testo ma semmai la mente di chi lo «usa», come «pretesto», per parlare dei propri problemi. Invece sono troppo spesso l’ingrediente più apprezzato di ciò che oggi viene prodotto e offerto come strumento di studio nelle istituzioni accademiche (lo studioso «impegnato» sempre pronto a dimostrare le proprie tesi politiche oppure lo studioso ossessionato dalle proprie psicosi e sempre pronto ad applicare ad ogni oggetto le proprie pretestuose manie interpretative: cos’è mai peggio?). Ma a quale titolo un critico, o un docente di critica, chiede ai propri lettori, o studenti, di ascoltarlo, leggerlo e magari anche pagarlo per le sue sorprendenti «associazioni»? Sarebbe più giusto che le rivolgesse al proprio psicoanalista e che accettasse di dover pagare lui una parcella, per essere ascoltato e analizzato, piuttosto che pretendere che i suoi lettori/ascoltatori la paghino a lui, anche solo con la disponibilità a sopportarlo come esperto della materia (quale materia? La sua mente disturbata?).
Si potrebbe pensare che questo modo perverso di insegnare sia riservato solo alle materie umanistiche, considerate troppo spesso frutto di estro e di impulsi irrazionali non spiegabili con la scienza.
Paradossalmente persino le materie scientifiche sono trattate come un insieme di assiomi, di conoscenze da memorizzare; solo in misura minore sono considerate come un insieme di procedimenti metodologici da acquisire. I manuali stessi sono concepiti come un cumulo di giudizi da acquisire e da ripetere per ottenere un voto e un diploma. Perfino la scienza non è trattata come una metodologia per affrontare il reale ma come storia di scoperte e di applicazioni in campo matematico, fisico, biologico, chimico etc. D’altro canto la divisione tra «materie umanistiche» e «materie scientifiche» è ancora una barriera insormontabile, anche se con le parole – e per assurdo – tutto è diventato scienza (e dunque nulla è scienza): “scienze umanistiche”, “scienze dello sport”, “scienze dell’alimentazione”, “scienze dell’educazione”, etc. Quello che invece non è accaduto – e che potrebbe non accadere mai – è che almeno lo «studio» della letteratura, delle arti visive, della musica, e oggi magari anche del teatro e del cinema, sia considerato occasione per acquisire, sperimentare e apprendere «metodologie» per analizzare e comporre i testi.
La maggior parte dei manuali non aiuta lo studente ad acquisire le competenze dell’autore – o degli autori – degli studi che essi contengono, anzitutto perché contengono solo studi e non, anche, riflessioni metodologiche sul modo in cui sono condotti gli studi stessi; inoltre, troppo spesso, gli stessi autori degli studi non sono in grado di distinguere i «giudizi» dai «criteri di giudizio» che assumono inconsapevolmente; non conoscono le «teorie» implicite – quando non sono luoghi comuni o ideologie – che adottano nel formulare giudizi; e pensano che il loro compito sia solo quello di fornire i giudizi da loro ritenuti più validi di altri, piuttosto che insegnare come giungere a formularli.
Così, paradossalmente, è assai improbabile che uno studente che utilizzi un manuale di storia dell’arte o di letteratura possa ricavare – tra le informazioni fornitegli oltre quelle di carattere storico – alcuni «criteri» per poter tentare lui stesso di analizzare una nuova opera, applicando quanto appreso in una lezione su un particolare testo. Potrebbe infatti scoprire che spesso anche nei manuali in conti non tornano. Qualora infatti riuscisse ad esplicitare i criteri impliciti adottati dall’autore nel formulare un giudizio su un’opera, e tentasse di applicarli allo studio di un’ulteriore opera prima di leggere i commenti su di essa, egli giustamente si aspetterebbe di giungere alle medesime conclusioni dell’autore; ma questo non accadrebbe necessariamente, perché in molti casi, cambiando gli oggetti di studio, lo studioso potrebbe aver cambiato, implicitamente, i criteri di giudizio. In questi casi non resta, al povero studente, che immagazzinare tanti giudizi incomprensibili e tante conclusioni inverificabili da recitare su richiesta.
Anche questo fa parte del «metodo» scorretto con cui oggi si fa pedagogia: in modo dottrinale, senza parlare delle teorie scientifiche assunte nel condurre uno studio (qualora se ne siano assunte) e senza parlare di altri studi condotti da diverse prospettive sul medesimo oggetto di studio; impedendo così allo studente di rifare i conti in tasca al docente, e di considerare il «caso» trattato come un «esempio» da cui trarre insegnamenti di carattere metodologico per poter trattare autonomamente altri casi.
Perché questo possa accadere il docente dovrebbe essere tale non per il potere conferitogli dal suo ruolo, ma per autorevolezza, non presupposta ma conquistata, in ogni momento, mostrando senza timore ai propri studenti «come» egli è in grado (se lo è davvero) di trattare una questione: ricavando per via scientifica, dalla correlazione tra informazioni preesistenti, nuove informazioni. Ma questo sarebbe un altro modo di fare didattica, basato sulla partecipazione degli studenti a un vero e proprio «laboratorio di ricerca scientifica», dapprima come osservatori, poi come sperimentatori, poi come ricercatori; un laboratorio dove il docente, mentre fa ricerca, si fa osservare e «maieuticamente» coinvolge i suoi allievi nel processo di indagine.
La scuola di oggi sembra invece avere adottato come modello pedagogico – o peggio demagogico e ideologico – quello delle televendite e della politica, dove il docente «dimostra» abilità che spesso non possiede, recitando un piccolo spettacolo – magari una «presentazione multimediale» – come uno speaker televisivo, o meglio come un prestigiatore o un attore, prevedendo persino battute e sorprese per strappare al suo pubblico inconsapevole applausi e consenso, senza preoccuparsi di ciò che alla fine dello show i suoi studenti avranno appreso. D’altro canto egli sa che il pubblico soddisfatto, dopo aver goduto di una più facile ed emozionante esperienza spettacolare, non trova ragione per chiedere conto di ciò che avrebbe dovuto apprendere. E’ la differenza tra «dimostrare» e «mostrare», che Rossellini ci ha insegnato a tenere bene a mente quando «insegniamo» e non «recitiamo». Si «mostra quello che si si fa e si sa», si «dimostra quello che non si sa e non si fa». Per dimostrare di essere un bravo scienziato non occorre essere uno scienziato, altrimenti non esisterebbero tanti attori e truffatori che ci convincono più di un vero scienziato; basta saper interpretare una parte ben scritta. Questo è quello che imparano anche gli studenti: a recitare ciò che non sanno, che non hanno capito ma che consente loro di dare l’idea di saperlo.
Non a caso nel nostro mondo dominato dalla «comunicazione» sono proliferate sedicenti scuole e università online che offrono diversi livelli di truffa. Anzitutto quello che si può trovare anche in una scuola o università che si è allineata ad esse: si fa presenza, si dichiara che il docente è bravo, e, grazie alla partecipazione, si ottiene un diploma che permette di attestare competenze che non si possiedono e di far pervenire, alla scuola o università, sia più finanziamenti – in relazione al successo delle presenze – sia più studenti – per il passaparola sulla facilità di conseguimento dei titoli di studio. Poi c’è il livello un po’ più ambiguo, che consiste nell’iscriversi a corsi più brevi e sintetici online, dove non è richiesta neppure la presenza fisica, e dove si possono scontare come crediti varie attività svolte in precedenza. Infine c’è il livello più esplicitamente truffaldino, che consiste nel comperare un diploma semplicemente pagando, come «clienti», per il servizio offerto, in genere caro ma rapido ed efficace in quanto – purtroppo – equiparato a quello che si ottiene studiando.
Ciò che è più sconfortante è che già la scuola di base sia condizionata da un modello formativo efficientistico con una concezione dell’apprendimento settoriale e con una visione specialistica orientata al mercato del lavoro. In questo modo si perde l’occasione di far sperimentare ai ragazzi, preliminarmente, «come» si studia e come si crea un’opera d’arte, e come ragiona uno studioso e un autore, prima di fornire loro una quantità di «nozioni» che in quanto tali verranno rapidamente rigettate, perché scollegate sia tra loro sia con quelle già in possesso dei discenti. Si forniscono, invece, conoscenze tecniche, utili forse per svolgere un lavoro, ma inadatte a sollecitare capacità elaborative disinteressate, come quelle che può offrire lo studio metodologico dei procedimenti della scienza e dell’arte.
Come può, dunque, questa scuola contribuire alla formazione di nuovi artisti e scienziati, se l’arte e la scienza sono trattate come «materie», al pari delle altre, come insiemi di «nozioni» da apprendere e collezionare insieme ad altre di tipo storico, tecnico, sociologico, psicologico?
Quando iniziammo la nostra attività, cominciava ad andare di moda portare nella scuola la musica, la pittura, il teatro, il cinema per farne attività di «animazione», per favorire la «socializzazione» e la «spontanea creatività». Noi ci convincemmo, invece, che questa opportunità andava sfruttata, proprio a partire dalla scuola di base, non per introdurvi un po’ più di spontaneismo, o per aggiungervi ulteriori lezioni tecniche o storiche o sociologiche, ma per mettere in moto quel pensiero logico, quelle capacità logiche elaborative che purtroppo già dalla scuola di base venivano inibite anziché stimolate.
Al momento della nascita dell’Istituto si era già affermata l’idea che occorresse operare uno strappo con la tradizione umanistica a favore di una cultura contemporanea basata sulla dissacrazione della classicità, e nella scuola si e ra introdotta l’idea dello spontaneismo che avrebbe portato all’abbandono dello sviluppo dell’intelligenza a favore della socializzazione, della partecipazione e della condivisione.
L’Istituto intendeva invece trovare il modo più adatto per tramandare gli insegnamenti dei grandi umanisti del passato e formare gli umanisti del futuro, e fornire alla scuola nuovi strumenti per favorire lo sviluppo delle capacità elaborative dei ragazzi penalizzate da una didattica nozionistica e settoriale.
Da allora tutta la nostra attività si è svolta su due piani:
– da un lato ricercare nei progetti e nelle ricerche di artisti e scienziati tutta la metodologia da loro utilizzata: il loro modo di ragionare, di sviluppare idee, che rende un loro progetto mai vecchio ma sempre un modello esemplare di come affrontare una questione, di come risolvere un problema, di come giungere a una scoperta. In questo senso abbiamo privilegiato ovviamente quegli autori e quegli studiosi che hanno dedicato ampio spazio a parlare di «metodo». Ma abbiamo anche considerato quegli autori che hanno lasciato un’opera monumentale in cui il metodo era implicito e bisognava ricavarlo e verificarlo andando a ricercare in ogni segmento dei loro testi quei principi che poi puntualmente venivano ritrovati anche in altre parti, a significare che la loro presenza non era casuale ma frutto di un disegno preciso, di una sistematica applicazione di regole e di uno sfruttamento ottimale dei medesimi elementi;
– da un altro lato abbiamo sempre cercato di fare di questa metodologia l’oggetto di apprendimento in attività di formazione e didattica, facendo in modo che, dalle stesse opere di quegli autori, gli insegnanti e gli studenti potessero ricavare strumenti metodologici per poter meglio controllare i processi analitici e creativi proprio in quei campi – umanistici – ove la scienza è considerata non pertinente, neppure come prezioso strumento di studio analitico e progettuale.
In questa prospettiva il nostro obiettivo primario è diventato rapidamente quello di trasformare «archivi inerti» di opere di grandi autori-studiosi in «botteghe virtuali»: ambienti di studio, formazione e didattica online, in cui creare e rendere fruibili sistemi ipermediali per aiutare gli utenti ad apprendere, da opere classiche, la lezione di metodo racchiusa in esse.
Con questa spinta metodologia abbiamo cominciato a sviluppare i primi sistemi di apprendimento interattivi e reticolari – inizialmente offline ma già in forma ipermediale – che, mentre permettevano di esplorare correlazioni intra- e inter- testuali tra opere di tempi, luoghi e forme espressive diverse tra loro, scoprendo legami impliciti in base a come erano fatti i testi e non in base agli argomenti trattati, al contempo permettevano di acquisire principi metodologici di narrazione e composizione con ogni forma espressiva: «competenze» oltre che «conoscenze».
La nostra metodologia consiste infatti in questo: stimolare l’esplorazione delle correlazioni tra testi di ogni tempo, luogo e forma espressiva, attraverso principi condivisi dai testi stessi; e simultaneamente stimolare l’apprendimento metodologico dei principi utilizzati per esplorare le correlazioni.
I «Sistemi Reticolari E-Learning», che dopo lunga sperimentazione siamo finalmente riusciti a costruire e a rendere facilmente distribuibili attraverso un Sito/Scuola Online, sono stati ottimizzati per far accrescere non solo le «conoscenze» (scoprendo nuovi testi correlati tra loro) ma anche le «competenze» (i criteri di correlazione, cioè i principi di narrazione e composizione condivisi) dei fruitori, facendoli navigare tra i testi classici, ma al contempo definire e studiare i principi utilizzati, nella navigazione, per scoprire correlazioni non immediatamente percepibili tra di essi.
Gli utenti dei Sistemi possono infatti ricavare da un segmento di un testo classico tutti i principi presenti, e sono invitati a ricercare quei medesimi principi in altre parti dello stesso testo o in altri testi dello stesso autore o in testi di altri autori; per farlo, essi esplorano un reticolo intra- e inter- testuale di correlazioni, utilizzando e scoprendo i principi condivisi tra i testi o tra le parti di uno stesso testo.
I nostri primi esperimenti, in questa prospettiva, hanno avuto per oggetto alcuni capolavori del teatro musicale, altri del teatro di prosa, altri ancora della letteratura, della pittura e del cinema.
Uno dei primi prototipi riguardava l’opera di Louis Carroll, e si sviluppava a partire da Alice nel paese delle meraviglie; con esso mostravamo come si potesse creare un sistema ipertestuale che non fosse chiuso all’interno di un testo (Alice) e che non si sviluppasse solo attraverso il punto di vista di uno studioso settoriale; il sistema reticolare che avevamo ipotizzato ed esemplificato si basava non solo sull’intera opera di Carroll, ma anche sulle opere degli autori che indirettamente avevano dialogato con lui e su quelle di coloro che continuano ancora oggi a dialogare con lui, nonché sugli studi di tutti coloro che hanno compiuto indagini da diverse prospettive sul capolavoro di Carroll, e sui manuali teorici su cui quegli studiosi si sono preparati. Insomma, un sistema che permetteva di esplorare correlazioni interne ad Alice nel paese delle meraviglie, tra Alice e i suoi complementi (illustrazioni), le sue varianti (riscritture) e messe in scena; tra Alice e altri testi di Carroll, tra l’opera di Carroll e quella di altri autori, e infine tra l’opera di Carroll e le riflessioni saggistiche degli studiosi che se ne sono occupati. Riguardo a questi ultimi in particolare venivano messe a confronto, indirettamente, le prospettive teoriche adottate, esplicitando gli approcci interpretativi all’opera di Carroll cioè le teorie assunte come assiomi impliciti, come presupposti delle indagini. Il sistema permetteva di studiare l’opera di Carroll anche scoprendo quei testi correlati che costituivano varianti implicite o esplicite e condividevano con essa una parte dei principi narrativi e compositivi; al contempo permetteva di riflettere sull’opera critica di coloro che avevano hanno il loro ingegno allo studio dei progetti di questo autore e sulle teorie adottate dagli studiosi ma anche dallo stesso Carroll (logica, linguistica, retorica) nell’elaborare i loro testi.
Tra i primi prototipi sviluppammo anche un sistema basato sul «dialogo diretto e indiretto tra Truffaut e Hitchcock», in cui mostrammo come i rapporti tra questi due autori si sviluppassero anche al di là dei dialoghi diretti (attraverso interviste e lettere), ma anche indirettamente attraverso le loro stesse opere narrative oltre che saggistiche, in cui condividevano i medesimi principi di cui parlavano nelle loro conversazioni; principi che si ritrovavano sistematicamente applicati tanto nei capolavori narrativi dei due stessi autori quanto in quelli degli autori non solo cinematografici che essi consideravano loro maestri. Questo sistema permetteva di dare avvio alla costruzione di un «manuale reticolare di narrazione audiovisiva», e al contempo permetteva di applicare il manuale stesso, in modo sistematico, all’opera di questi due eccezionali «autori-studiosi»; quindi il sistema costituiva anche uno studio dell’opera di Truffaut e di Hitchcock da un punto di vista metodologico nuovo, rigoroso e scientifico come i due stessi autori avrebbero voluto. Prima di iniziare lo sviluppo del sistema impiegammo molto tempo nella ricerca dei documenti, e contemporaneamente nello studio sistematico dei progetti e degli studi dei due autori-studiosi. Poi affrontammo i problemi tecnici della realizzazione (bisognava costruire una rete di connessioni tra testi memorizzati su diversi dispositivi offline: CD-rom, laserdisc, hard disc) e quelli non solo tecnici della distribuzione, cercando di convincere editori letterari e audiovisivi – peraltro di due diversi continenti – a cooperare nel mettere a disposizione i diritti d’uso per un grande progetto educational ed eventualmente commerciale che avrebbe rivoluzionato lo studio della cinematografia (il libro in cui era pubblicata la più famosa e più lunga – nonché diretta – «conversazione» tra i due autori era tradotto in numerose lingue e pubblicato in tutto il mondo, ma gli altri scritti e interviste erano sparsi in una moltitudine di media e supporti; così come i film dei due autori erano solo in ripubblicati senza soste prima in formato VHS poi su Laser Disc e quindi su DVD; alcuni di essi non erano stati ancora pubblicati nell’home video).
Un altro progetto su cui investimmo le nostre risorse riguardava l’opera di Ernst Lubitsch, che ci appariva come un perfetto «sistema di variazioni» interne ed esterne al suo cinema; un sistema di variazioni tra i suoi film e opere non solo cinematografiche, di tipo letterario, teatrale e musicale, con cui Lubitsch stabiliva un dialogo indiretto per tessere una parte significativa di quella rete di studi e progetti della nostra tradizione umanistica mitteleuropea su cui egli si era formato. Con questo sistema potevamo mostrare come il cinema d’arte di Lubitsch non fosse altro che la continuazione di quella tradizione artistica che nel teatro di prosa e musicale, nella letteratura e nella pittura mitteleuropea aveva già creato i più alti capolavori.
L’idea di iniziare a sviluppare i primi prototipi di sistemi ipermediali sul cinema era nata proprio dalla riflessione che in questo campo più di altri era solo scarsamente e implicitamente applicato il metodo scientifico, sia nella progettazione che nello studio delle opere. Di conseguenza la nostra attenzione si concentrava sulle opere cinematografiche di quegli autori che – come diceva John Ford – erano riusciti a mostrare come si potesse «fare arte anche con il cinema»; il primo (non solo cronologicamente) tra essi era appunto Ernst Lubitsch. L’opera cinematografica di Truffaut e di Hitchcock ci interessava in particolare perché supportata da un’impianto teorico-metodologico creato da questi due autori in quasi quaranta anni di dialoghi e studi sulla narrazione audiovisiva. Inoltre ci interessavano quegli autori che nel cinema erano riusciti a creare nuovi «classici», interrelati da un lato con la tradizione umanistica precedente al cinema, e da un altro con quella contemporaneità che, se non conosceva direttamente la tradizione umanistica, si era almeno ispirata ad essi, creando varianti implicite o esplicite correlate alla loro opera.
In questa stessa prospettiva abbiamo anche lavorato per alcuni anni a un corso/manuale trasversale di perfezionamento autoriale che permettesse agli utenti di studiare «come» alcuni grandi autori (Lubitsch, Chaplin, Hitchcock, Truffaut, Welles, Disney, e qualcun altro) fossero riusciti a creare capolavori d’arte anche nel campo cinematografico; il corso mirava a far acquisire quelle capacità ulteriori – dopo quelle tecnologiche, storiche, e sociologiche offerte dalla formazione universitaria – necessarie per fare non semplicemente un film, ma un un film «come lo farebbe» un grande artista.
Contemporaneamente avviammo una sperimentazione in partnership con l’allora “Area Formazione e Ricerca del Teatro La Fenice di Venezia” sui capolavori dei grandi autori del teatro musicale, per creare i primi prototipi, in forma ipermediale, per lo studio interdisciplinare delle arti narrative, considerando il teatro musicale come il laboratorio ideale per indagare la vera multimedialità: quella straordinaria capacità, sviluppata dai grandi compositori e librettisti, di elaborare progetti narrativi che sfruttino diverse forme espressive per articolare la narrazione su più piani distinti e tra loro complementari. Lavorando sul patrimonio operistico abbiamo scoperto le insuperate lezioni metodologiche dell’«opera totale» wagneriana e delle «disposizioni sceniche» verdiane, che ci hanno permesso di ricavare, dalle stesse opere di questi maestri, alcuni degli strumenti metodologici per studiarle.
Sempre grazie alla partnership con l’allora innovativo ufficio educational del Teatro La Fenice abbiamo potuto sviluppare i primi sistemi dedicati alla narrazione per l’infanzia, a quei capolavori che avevano avuto riscritture esplicite o implicite per il teatro musicale.
Poi insieme all’ ERT Emilia-Romagna Teatro abbiamo sviluppato una serie di prototipi dedicati all’opera di Shakespeare, con cui abbiamo potuto mostrare come essa da un lato influenzi tutta la narrazione contemporanea e da un altro costituisca un ponte per esplorare correlazioni con capolavori artistici di ogni tempo, luogo e forma espressiva. Inoltre abbiamo potuto mostrare come nell’opera di Shakespeare sia presente – e magistralmente applicata – la maggior parte di quei principi universali di narrazione che noi ricerchiamo e cerchiamo di apprendere in opere d’arte di diversa natura.
Ognuno di questi prototipi è stato oggetto di sperimentazione in diverse regioni e in scuole di ogni ordine e grado del nostro paese. Grazie a questi «prototipi offline» abbiamo potuto elaborare un’idea più generale di prototipo di «Sistema Formativo e Didattico Reticolare E-Learning» su cui si basa, ora, la struttura dei nostri Laboratori di studio online, ovvero la «Scuola di Arti Narrative» che intendiamo sviluppare attraverso il Sito.
Di seguito cercheremo di collegare progressivamente i numerosi testi di lezioni, conferenze, saggi che abbiamo prodotto, negli anni, per presentare e illustrare – ai nostri potenziali utenti, sostenitori e partner – la proposta metodologica con cui vogliamo contribuire a cambiare il modo di fare formazione e didattica, in una parola educational.
Testi sulla nostra ricerca metodologica:
– Dalla Conservazione alla Valorizzazione: il caso degli archivi delle Fondazioni Lirico Sinfoniche
– A proposito dei Centenari: il bicentenario Verdi Wagner; una delle tante occasioni sprecate
– A proposito dei nuovi manuali di studio nell’era digitale
– A proposito della nostra ricerca metodologica